Articoli su Giovanni Papini

1921


Savino Varazzani

rec. Storia di Cristo di G. Papini

Pubblicato in:: La parola e il libro, nuova serie, fasc. 4, pp. 24-26
(24-25-26)
Data: giugno 1921



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   — Che cos'è questa «Storia di Cristo»?
   Chi si pone una tale domanda, non è passibile, credo, (per poco che conosca l'autore dell'opera) che non se ne ponga anche un'altra, e cioè: — Come mai ha potuto scrivere une Storia di Cristo un uomo come il Papini?
   E allora ecco subito che la seconda domanda soverchia, nell'animo di chi l'ha concepita, la prima. La soverchia e la mette in seconda linea. Non solo. Ma fa pullulare, dietro quella, irresistibilmente, una serie incalzante d'altre domande, di carattere personale. — Papini?! — si pensa e si dice. — Ma è possibile che si aia convertito al cristianesimo Papini? che sia diventato credente e cattolico? possibile che si sia fermato in una fede lui che ha rifiutato e sbeffato tutte le fedi, non solo, ma anche tutte le più ragionate e elucubrate costruzioni mentali della scienza e della filosofia? Sarà poi sincero, Papini? O, ammessa pure la sua sincerità, non sarà questa una sincerità superficiale e momentanea, un'illusione quasi di sincerità, una specie d'inganno ch'egli fa a sè steso, sedotto e vinto da uno stato affettivo del suo spirito bisognoso temporaneamente d'una sosta, d'una fase di riposo e di dolcezza? Non sarà egli andato, senza troppo interrogare a fondo la sua coscienza, dietro ad un volo della propria fantasia, a un impulso delle sue facoltà creative d'artista, dando vita internamente a fittizie visioni e adombrandole poi sotto parvenza di realtà? O fors'anche (ipotesi più irreverente e più maligna di tutte) non avrà egli, con più o meno chiara consapevolezza e con più o meno deliberato proposito, ceduto alla tentazione di fare sopratutto un libro nuovo, singolare, sbalorditivo, capace di levare scalpore e di accrescergli fama, e non fama soltanto?
   A queste domande, dietro le quali s'annida un senso di sospettosa diffidenza, pare a me che non si possa rispondere con possibilità di soddisfazione per altra via che questa: penetrare nell'anima dell'autore. Ma come si fa a penetrar nell'anima dell'autore? In due modi, gli unici umanamente praticabili, e cioè: primo, ascoltando ciò ch'egli dichiara di sè; secondo, leggendo il suo libro
   Quanto al primo modo, ecco ciò che il Papini dichiara nella prefazione al volume.
   «L'autore di questo libro — egli scrive — nel tempo che lasciava scapestrare il suo umore matto e volubile per tutte le vie dell'assurdo, ritenendo che dalla negazione di ogni trascendente resultava la necessità di spogliarsi di qualunque bigotteria, anche profana e mondana, per giungere all'ateismo integrale e perfetto, in quel tempo di febbre e d'orgoglio, offese Cristo come pochi altri prima di lui avevan fatto. Eppure, dopo sei anni appena (ma sei anni che furono di gran travaglio e devastazione fuori di lui e dentro di lui), dopo lunghi mesi di concitati ripensamenti, ad un tratto, interrompendo un altro lavoro cominciato da molti anni, quasi sollecitato e sospinto da una forza più forte di lui, cominciò a scrivere questo libro su Cristo, che ora gli sembra insufficiente espiazione di quella colpa. E intervenuto spesso. a Gesù, di essere più tenacemente amato da quelli stessi che prima lo odiavano. L'odio talvolta, non è che amore imperfetto e non consapevole di sè: e, in tutti i modi, è miglior tirocinio d'amore della indifferenza.
   «Come lo scrittore sia giunto a ritrovar Cristo, da sè, camminando per molte strade che alla fine sboccavano tutte ai piedi della Montagna dell'Evangelo, sarebbe un discorso troppo lungo e anche difficile. Ma il suo esempio — cioè quello d'un uomo che ebbe sempre, fin da bambino, una repulsione per tutte le fedi riconosciute e per tutte le Chiese e per tutte le forme di vassallaggio spirituale, e poi passò, con delusioni tanto profonde quanto erano stati potenti gli entusiasmi, attraverso molte esperienze, le più diverse e le più nuove che poteva trovare — l'esempio di quest'uomo, dico, che ha consumato in sè stesso le ambizioni di un'epoca instabile e irrequieta come poche ve ne furono; l'esempio di un uomo che dopo tanto scavallare, matteggiare e vaneggiare torna vicino a Cristo, non ha forse un significato soltanto privato e personale».
   Dopo queste dichiarazioni dell'autore (delle quali è pur forza star contenti, anche se non spieghino molto, dappoichè il volerne saper di più importerebbe un discorso troppo lungo e anche difficile) non resta che leggere il libro.
   Io l'ho letto; da capo a fondo, sebbene sia di grossa mole e non scevro di qualche prolissità e fors'anco, ma raramente, di qualche pesantezza; l'ho letto, e consiglio tutti a leggerlo, fermamente persuaso che, a lettura finita, mi saranno cordialmente grati dell'incitamento.
   È un magnifico libro; ed è tale, non solo sotto l'aspetto della poesia e dell'arte (il che non avrebbe nulla di meraviglioso, per chi conosca l'ingegno e la forza dello scrittore), ma anche — e più ancora, secondo me — sotto l'aspetto dello schietto sentimento umano.
   Questa «Storia di Cristo» procede sulle orme degli Evangeli. Non li discute; non li vaglia; non li sottopone alla distillazione, usuale e tradizionale, d'una critica di controllo e di cernita; non vuole umanizzare Cristo più di quanto il Figlio dell'Uomo si sia umanizzato da sè; ripudia anzi deliberatamente ogni lavoro critico siffatto; e accettando la testimonianza dei Vangeli così com'è, senz'altro, con fede ed amore, la segue passo passo.
   Sennonchè, mentre nei versetti dei Vangeli la narrazione scorre via (pur nella sua solennità angusta) arida, nuda e quasi scarnita, nelle pagine del Papini invece essa si espande in una lussureggiante pienezza. Con che non voglio dire (il ciel me ne scampi!) che il Papini faccia opera di retorica amplificazione. No, per carità! Ben altra opera egli fa: più nobile, più degna e più bella. Egli si accosta alla lettera degli Evangeli (se mi è lecito valermi d'una immagine) come l'antico supplicante s'accostava all'Oracolo. E chiede ad essa che gli


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riveli, attraverso quel poco che dice, tutto quel molto che tace, quel molto che pur dovette essere nella realtà particolareggiata e circostanziata dai fatti. E così (per recare un esempio) mentre solo pochi tratti sommarii ci dà la lettera del Vangelo circa l'accoglienza fatta a Gesù da Marta e Maria, le due sorelle di Lazzaro, dopo la resurrezione di costui, ecco che il Papini sforzando, per così dire, con la sua fervida e appassionata intuizione le porte chiuse di quella concisione narrativa, penetra nella visione del fatto, la rievoca dentro di sè, e la risuscita con tale felicità di verisimiglianza che vi vien fatto di dire, dopo aver letto: — Si, certo; questa scena si deve essere svolta così, proprio così, non altrimenti che così! — Tutta l'arte del Papini pare a me che sia di questa fatta. La Storia di Cristo insomma egli l'ha assorbita dai Vangeli, l'ha scaldata dentro di sè, vi s'è immedesimato, l'ha sentita vera perchè viva e palpitante nel suo spirito; e, come l'ha sentita, l'ha espressa. La sincerità del Papini (intorno alla quale si aggira sospettoso e diffidente il pensiero di molti lettori) esce da questo lavorio del suo spirito pienamente documentata. Tantochè se qualcuno domandasse a me: — Ritieni tu che il Papini veramente creda in Cristo? — io non dubiterei un istante di rispondere: — Si certo: nel Cristo che palpita e vive nelle sue pagine, egli erede; anzi deve crederci; chè, se non ci credesse, non avrebbe potuto scrivere


GIOVANNI PAPINI

così. — Dico: nel Cristo che palpita nelle sue pagine. Fuori di queste, quale sia, o quale possa essere o diventare, la coscienza di lui, io non so. Ma non mi arrogo neppure il diritto di sapere, chè una simil questione pormi non appartenga ai lettori di questa sua opera.
   La quale opera, l'ho detto più sopra, è di grossa mole. Ma, se pur qualche prolissità contiene, e se pur genera qualche rara volta un po' di senso di peso, si fa tuttavia leggere con grande e passionato diletto. Lo scrittore è — chi non lo sa? — un artista di magnifiche doti e di consumata esperienza. E con fortunato accorgimento ha dato snellezza e agilità al suo lavoro dividendolo in numerosissimi capitoli (sono, tra tutti, centoventinove!) di carattere, narrativo e descrittivo alcuni, interpretativo e raziocinativo altri. Ce n'è di quelli ch'io chiamerei perfetti; capitoli d'una evidenza meravigliosa, d'una verità che si vede e si tocca; capitoli che vi affascinano, vi afferrano, vi commovono, e che basterebbero, ognun da sè, alla fortuna (e vorrei aggiungere: alla gloria) d'un'opera letteraria.
   Resterebbe da vedere (o, meglio, da congetturare) quale possibile influenza morale potrà esercitare questo libro. Esplicitamente ha scritto il Papini, nella prefazione, che egli non ha inteso di fare un libro di mera poesia; meno che mai, poi, di mero diletto; bensì un libro di edificazione. «Non già» egli ha aggiunto «nel senso della beghineria


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meccanica, ma nel senso umano e virile di rifazione dell'anime». Indubbiamente, tra le tante rifazioni che si possono volere e tentare, quest'è la più ardua di tutte. A ogni modo, se la Storia di Cristo otterrà per lo meno l'effetto di far sentire a qualche Migliaio d'Italiani quant'essa sia diversa e lontana dalle futilità o ignobilità o artificiosità pretensiosa di tant'altre scritture che pur sono oggi in auge e in voga, sarà un vantaggio e un benefizto non piccolo e non disprezzabile.


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